Cronaca si una storia vissuta: l'uomo del "letto uno" ringrazia...
Abbiamo letto, qualche giorno fa fra le righe della riviera online e sul quotidiano Catanzaro informa, una bellissima testimonianza del nostro concittadino prof. Aldo Scimone in merito alla sua esperienza negli Ospedali di Locri prima e Catanzaro dopo a seguito di un preoccupante principio d'infarto.
Una storia che merita di essere ancora proposta affinché venga maggiormente diffusa la fiducia che medici e reparti ospedalieri di eccellenza sono presenti anche in Calabria con una professionalità che non ha nulla da invidiare a nessun altro ospedale d'Italia.
Una storia davvero toccante che siamo sicuri emozionerà anche i lettori di questo blog
Ci risiamo. Siamo qui ancora una volta a parlare di sanità. E già tutti a pensare: la solita storia di malasanità, medici sotto accusa, infermieri superficiali e poco professionali e pazienti “spazientiti”, (è un eufemismo), che attendono, attendono, attendono.
E invece no.
La storia che sto per raccontare è di un altro colore. Voglio ribadire che oltre
le storture, i torti, le disgrazie che possono capitare, e capitano, in special
modo in questa terra di Calabria, può succedere di trovare delle perle, dei
valori che vanno messi in risalto e fungere da volano, come diaspora, per altri
eventi.
Parlo di due
strutture calabresi, si calabresi, per una delle quali si è detto di tutto, nel
bene e nel male.
L’UTIC dell’Ospedale di Locri, e l’UTIC dell’Azienda
Ospedaliera di Germaneto-Catanzaro.
Ma cominciamo dall’inizio. Mi sono ritrovato, e non
per mia volontà, credetemi, coricato su un lettino dell’unità cardiologica Utic
di Locri ed il personale presente al momento – grazie dott.ssa Minniti – con un
intuito ed una prontezza degni del migliore freddo e cinico computer, è un
complimento, dopo avermi visitato,
prende la decisione giusta tra le più giuste, ed io mi ritrovo a volare, nel
senso vero della parola, verso l’Ospedale di Germaneto, reparto UTIC.
E qui comincia l’avventura. Frastornato, un tantino
preoccupato (chissà perchè poi), mi
trovo a subire la mia prima, e spero ultima, coronarografia con successivo
intervento angioplastico. Intanto sono trasferito nel reparto terapia intensiva
dell’Utic. Si tratta di un salone rettangolare dove ci sono 8 letti
ultramoderni, ma che secondo le esigenze del momento diventano 10 oppure 12 o
ancora 14 posti letto, separati tra loro da una parete divisoria amovibile,
necessaria per la dovuta privacy. Non
sono anestetizzato, quindi con la mia lucidità, posso osservare tutto quel che
mi sta attorno, anche perchè il mio letto, Letto1, si trova all’inizio della
stanza, lato corto, perpendicolare agli altri, in una posizione dalla quale
posso osservare tutta la stanza: alla mia destra i lettini degli ammalati, alla
mia sinistra, in posizione centrale, la postazione dell’equipe medico
infermieristica.
La prima cosa che mi colpisce è la mancanza del tempo,
nel senso che pare che il tempo si sia fermato.
Attaccato a quella macchina, monitorato anche nei piccoli movimenti, mi rendo conto che sono privo di tutto: indumenti, catenina, orologio, cellulare. E su quest’ultimo oggetto mi do una spiegazione, tutta mia ovviamente, del perchè questo evento colpisce principalmente le persone anziane: ve li immaginate un ragazzino o una giovinetta senza il proprio telefonino o smartphone o I-pad e cosi via per 7/8 giorni...
E io li, in
quel lettino a fissare una plafoniera illuminata, senza riuscire a capire se
fossero le quattro del mattino o le cinque del pomeriggio... Per potermi
raccapezzare un poco, contavo l’intervallo che l’apparecchio pressorio
scandiva; e siccome si metteva in funzione ogni sessanta minuti, il calcolo era
fin troppo semplice. Ecco ora è in misurazione, chiamo l’infermiera di turno
che mi dice l’ora; ecco ora sono le due, alla prossima misura saranno le tre,
poi le quattro e cosi via.... ma dopo dieci minuti mi assopisco e non sento la
misurazione successiva e ricomincio daccapo, richiamando l’infermiera.
Già
l’infermiere/a. E’ quella formica che non sono mai riuscito a vedere seduta e
non perchè non ci fossero sedie, ma perchè aveva sempre qualcosa da fare:
lettino, armadio medicinali, altro lettino, dottori, monitor, altro lettino,
aggiusta collegamenti staccati, prepara un nuovo letto per l’ammalato che ti
sta arrivando, il tutto senza dire una parola che non fosse necessaria. E i
medici: ....sempre li a scrivere, programmare, indicare una terapia. Ed io,
intorpidito da quella lampada solare mi chiedevo se eravamo in Italia, in
Calabria, in quella Calabria che tutti conosciamo.
Fanno
semplicemente il loro dovere, potrebbe pensare qualcuno; quello è il lavoro per
cui son pagati, direbbe qualcun altro.
Tutto vero,
verissimo. Ma c’era qualcosa che traspariva dal loro atteggiamento, quel
qualcosa che mi ha spinto a scrivere questa lettera, e sono fiero di farlo,
chiedendo scusa a Voi che la leggete se vi ho annoiati, una lettera che esce
dal cuore – siamo o no in cardiologia? –
Quel qualcosa
in più era l’amore.
L’amore che
mettevano in ogni loro azione, quando ti davano una compressa o quando ti
prelevavano il sangue, o ti facevano le pulizie, o quando venivano a darti
notizie sull’evoluzione del tuo stato o quando ti prendevano una mano e in quel
calore tu ti rasserenavi, va bene che c’erano i guanti, ma quel calore umano ti
penetrava lo stesso.
Lo so che la
situazione era particolare e tale da amplificare qualsiasi sentimento o
emozione e per uno come me che in quanto ad emotività se non è primo è secondo,
potevano essere ingigantiti.
Ma vi posso
garantire che so vedere e osservare, discernere e valutare.
Uomini e
donne come quelli, potrebbero essere il seme per un futuro migliore, e se
questo scritto può fungere da concime sarò contento.
Al prof Ciro Andolfi, primario della struttura, i
miei complimenti glieli ho già fatti
personalmente; così come a tutto lo staff medico, infermieristico e OSS presente
in quel momento; e la professionalità, la competenza, l’umanità e
l’amorevolezza che continuano a profondere verso quelle persone affidate alle
loro mani, rimarranno per sempre dentro di me.
Grazie a tutti, di cuore, il vostro per una settimana,
letto UNO.
Aldo prof. Scimone
Lettera toccante e, per quanto mi riguarda, condivisibile. Anch'io sono stato per qualche tempo "in villeggiatura" nella struttura ospedaliera di Germaneto, reparto Urologia guidata dal Prof. Rocco Damiano, per un intervento di prostatectomia radicale nel lontano 2007. Conservo un ricordo più che positivo per l'accoglienza, la professionalità, il trattamento e il calore umano profuso da tutto il personale medico e paramedico nei miei confronti e nei confronti di tanti altri pazienti. Giuseppe Guarneri
RispondiEliminaAl prof. Scimone vanno i piu' sentiti auguri. Ad ogni modo credo sia piu' che giusto criticare con i piedi messi ben ancorati per terra senza farsi trasportare dall'enfasi emozionale del caso specifico. La struttura di Locri nella fattispecie ha piu' pazienti sulla coscienza che casi FORTUNATI come questi. I migliori professionisti in quella struttura non sono mai durati tanto perché non sono messi nella migliore delle condizioni per poter svolgere la loro mansione. E quindi? Quindi rimangono i piu' scarsi, quelli che nella società moderna in cui ai giovani vengono chiesti Master a gogò non sarebbero degni di praticare nemmeno una puntura e si credono chissà chi. Non dimentichiamo che dopo decenni di scandali e sprechi la struttura è commissariata, ed ancora oggi vorrei vedere e capire quali aziende hanno gli appalti dentro l'ospedale. Nsomma, felice per il caso specifico ma non ci sto a rimettermi l'anello intorno al naso. Non posso giudicare la struttura di Germaneto perché non la conosco.
RispondiElimina