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domenica 19 settembre 2021

UNA RAGAZZA 23ENNE PARTORISCE IN CARCERE SENZA ASSISTENZA MEDICA. CE NE PARLA L'AVV. CARLO MARIA MUSCOLO


Carcere e gravidanza: una questione irrisolta che provoca vergogna.

di Carlo Maria Muscolo


Costretta a partorire in carcere a Rebibbia,
assistita solo dalla compagna di cella

  
 Amra ha 23 anni ed è di origini rom, quando è stata arrestata tutti sapevano fosse incinta. La sua residenza era all’interno del campo rom di Castel Romano, una realtà non distante da Pomezia malmessa e poco collegata con il resto del Lazio. A luglio, la giovane, era stata arrestata per furto e poi trasferita in cella, nonostante il suo stato avanzato di gravidanza.

    La notte del parto – raccontata dalla stessa Amra a Repubblica – è quasi da brividi. La giovane divide la cella con un’altra ragazza rom, anche lei incinta, che in quella notte concitata è stata fondamentale affinché la piccola bambina venisse al mondo. Le acque si rompono all’improvviso, iniziano le contrazioni e le grida d’aiuto. Gli agenti in servizio allertano il medico ma quando riesce a raggiungere la cella il parto è già finito.

    Amra e la sua piccola sono state poi trasportate al Pertini: dopo qualche giorno di decenza entrambe sono state dichiarate in ottima salute. Qualche giorno fa Amra è tornata in libertà e adesso è in attesa di processo. La ragazza, però, non è l’unica incinta lì a Rebibbia e soprattutto il protocollo per le mamme in carcere che portano avanti una gravidanza è ancora troppo obsoleto.

    Appare opportuno fare un punto della situazione normativa in tema, per scoprire come siano state previste le misure utili ad evitare che si verifichino vergogne simili e, quindi, la vergogna è ancor più grande, perché nulla è stato fatto.

    In questi giorni si legge che tutto è dipeso dalla mancata lettura della mail di richiesta, perché il personale addetto era in ferie!

    Trattare di maternità e carcere è come sviluppare, o meglio tentare di approfondire, un ossimoro, considerata la strutturale incompatibilità tra l’assolvimento della funzione materna ed il contesto penitenziario italiano.

 

Dopo il grave episodio, il ministro della Giustizia,
Marta Cartabia ha inviato in carcere gli ispettori
per accertare i fatti ed eventuali responsabilità.

   
Spesso, la madre reclusa è l’unica responsabile della cura del minore che, di fatto, si trova così a dover “scontare” una pena senza aver commesso alcun reato. Due sono le alternative ugualmente problematiche che possono prospettarsi. Da un lato, vi è infatti la possibilità che, in alcuni casi consentiti dalla legge, la madre detenuta possa tenere con sé il minore durante l’espiazione della pena o durante la misura cautelare.

    Diversamente, potrebbe verificarsi il forzato distacco in ragione della detenzione che provoca la separazione dalla madre reclusa, con una brusca interruzione del legame affettivo di cui l’ordinamento è chiamato a prendersi carico, in primo luogo, in nome dei diritti del minore coinvolto.

    Il contesto carcerario rappresenta di per sé un ambito profondamente problematico, al cui interno si assiste a un sistematico tradimento del senso costituzionale della potestà punitiva statuale secondo cui «le pene devono tendere alla rieducazione».

    In primo luogo per il “sovraffollamento carcerario” e ci si riferisce non soltanto ai parametri numerici da utilizzare per una valutazione degli spazi, ma anche, ad esempio, all’inclusione, nel computo complessivo, della mobilia, dei servizi igienici, così pure alla considerazione anche di altri fattori come la libertà di movimento all’interno della cella o la permanenza al di fuori della cella per la maggior parte della giornata.

    Vi è una ulteriore considerazione che fa da sfondo alla trattazione della maternità reclusa, posta la sua necessaria riconduzione nell’alveo delle specificità della criminalità femminile, spesso prevalentemente orientata verso tipologie di reato espressione più di marginalità sociale che di allarme sociale. In aggiunta, le donne ree manifestano un peculiare rapporto tra restrizione in carcere, affettività e genitorialità, rispetto alla condizione femminile, di cui occorre necessariamente tenere conto parlando di maternità reclusa.

    La maternità in carcere vive una dimensione penitenziaria quasi marginale confermata anche dalla limitatezza degli studi sulla criminalità e sulla criminologia femminile che, anche in questo ambito, confinano la condizione femminile alla invisibilità, quasi all’insignificanza per il diritto penale.

    In una prospettiva storica, mentre la necessità di una reclusione separata sulla base del sesso è presente fin dal 1600 e la criminalità femminile raccoglie attenzione già nel positivismo giuridico, il tema della condizione detentiva per le madri rappresenta una questione relativamente recente. Solo nella metà dell’Ottocento si pose, per la prima volta, il problema della maternità delle detenute, giungendo alla conclusione per cui non si potesse consentire la presenza di minori in carcere, in particolare dopo i tre anni, dovendosi preferire l’affido alla famiglia di origine o l’orfanotrofio.

    Consapevole della delicatezza di questa fase della vita, anche il legislatore penale del 1930 aveva rivolto attenzione al rapporto tra la madre detenuta e la prole, attraverso il possibile differimento dell’esecuzione della pena per la donna incinta e la madre di prole in tenera età. Di regola, la presenza in carcere di un minore era preclusa (con il divieto, per i minorenni, persino della possibilità di visita) e solo in via eccezionale le madri con bambini di età inferiore ai due anni potevano essere autorizzate dalla direzione dell’istituto a tenere con sé i figli in carcere, presumendo una inidoneità educativa del genitore e quindi alla interruzione della relazione con i figli nel loro stesso interesse.

    In tempi più recenti, sono state introdotte ulteriori normative per mitigare l’impatto che la detenzione della madre può generare in termini di interruzione dei rapporti affettivi con la prole o, alternativamente, quale “carcerizzazione degli infanti”, attraverso la previsione di meccanismi volti a favorire l’espiazione della pena all’esterno delle strutture detentive nei primi anni di vita del bambino.

    Una tappa fondamentale è costituita dalla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che colloca al centro del sistema la figura del detenuto. Nel configurare per la persona reclusa o internata un vero e proprio “diritto a prestazioni sanitarie” e nel riconoscere che il diritto alla salute spetta «alla pari dei cittadini in stato di libertà», la normativa richiama la necessità di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, ma anche – specificamente – dell’assistenza sanitaria per la gravidanza e la maternità, oltre che dell’assistenza pediatrica ai bambini che le donne recluse possono tenere in istituto durante la primissima infanzia. Così, presso ogni istituto penitenziario per donne, furono previsti servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere. Per le detenute madri, era inoltre contemplata la possibilità di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni, con il connesso obbligo dell’amministrazione penitenziaria di organizzare appositi asili nido per la cura e l’assistenza dei bambini. Pur nella salvaguardia della relazione materna, l’ingresso di un minore di tre anni in carcere rappresentava, comunque, una soluzione problematica poiché rendeva il successivo distacco forse ancor più drammatico. Inoltre, recludeva il bambino in un “contesto punitivo”, certamente povero di stimoli, insalubre e non idoneo alla creazione di un rapporto affettivo fisiologico con la figura genitoriale e – in generale – all’apprendimento, così fondamentale nei primi anni di vita.

    Proprio nella consapevolezza della problematicità del tema, nel 1986, con la cd. “legge Gozzini”, dal nome del suo promotore, era così stata introdotta una modifica all’ordinamento penitenziario, prevedendo la detenzione domiciliare per la madre di prole in tenera età e garantendo al bambino un’assistenza materna continuativa in ambiente familiare o comunque extracarcerario. In particolare, nel caso di una donna incinta, o madre di prole di età inferiore a dieci anni con lei convivente, che fosse condannata, si prevedeva la  possibilità di scontare, nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, fatto salvo il caso dell’elevata pericolosità sociale della madre. La Corte costituzionale aveva successivamente esteso anche al padre questa possibilità, ma solo in caso di decesso della madre o di sua assoluta impossibilità di assistenza alla prole

    Nel 2001, con la cd. “legge Finocchiaro”, dal nome dell’allora Ministra per le pari opportunità, il legislatore pose al centro il fascio dei diritti e delle libertà del bambino coinvolto, riconosciuto come titolare di un diritto all’assistenza materna in modo continuato e in ambiente familiare. Così, fu introdotta la possibilità di differire l’esecuzione della pena non pecuniaria per la donna incinta e per la madre di un bambino di età inferiore a un anno, insieme a una serie di altre vicende di ambito sanitario per la persona interessata. Il differimento è possibile anche nel caso in cui la madre abbia un figlio di età non superiore ai tre anni, mentre per le condannate madri con figli di età non superiore ai dieci anni è possibile essere ammesse alla detenzione domiciliare, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. La legge aveva pure introdotto l’istituto della detenzione domiciliare speciale, che consente alle detenute condannate a pene superiori a quattro anni, madri di bambini di età non superiore a dieci anni, di poter scontare il residuo di pena presso la propria abitazione o in altro luogo di cura, assistenza o accoglienza, dopo aver espiato un terzo della pena in carcere o quindici anni in caso di condanna all’ergastolo.

    Nel 2011, proprio per superare i limiti messi in luce dall’applicazione della cd. “legge Finocchiaro”, fu introdotta la possibilità di espiare la prima parte di pena (un terzo o quindici anni in caso di ergastolo) all’esterno del carcere, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri e presso case protette.

    Con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, la normativa è stata ulteriormente modificata, consentendo alle madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni e prevedendo per la cura e l’assistenza dei bambini appositi asili nido.

    Il testo approvato ha confermato la connessione fra le tutele e l’età del minore, con la libertà della madre fino al terzo anno di vita anche in caso di condanna in via definitiva, la detenzione domiciliare e l’assistenza extracarceraria fino ai dieci anni.

    Un recente studio precisa che le detenute madri con figli al seguito presenti negli istituti penitenziari italiani sono 49 e 54 i minori, di cui 11 donne con 14 minori al seguito non recluse negli Icam e, dunque, all’interno delle “sezioni nido”. A seconda di come si intenda la questione, ciò può essere ritenuto una prova del successo della normativa, visto il numero contenuto di persone recluse, come pure del suo insuccesso poiché, comunque, vi sono minori trattenuti negli istituti penitenziari e che stanno scontando pene per azioni commesse dalle proprie genitrici.

    Alla luce del quadro normativo vigente, oggi, per le madri condannate in via definitiva, è garantita la temporanea libertà fino al compimento dei tre anni del bambino, nonché, sino ai dieci anni, la detenzione domiciliare e l’assistenza fuori dal carcere. Al superamento del decimo anno di vita del bambino, l’ordinamento non ritiene più sussistente la necessità di proteggere la relazione materna, fatti salvi i casi di grave disabilità del figlio.

    È dunque ancora presente – in nome della discrezionalità legislativa – un limite al di sopra del quale non è più possibile accedere ai benefici, fissato in tre, sei o dieci anni, reputate età in cui il bambino possa non avere ancora una propria autonomia o non comprendere appieno il contesto nel quale si trova.

    Da notare come la recente riforma ha, da ultimo, definitivamente sdoganato l’espressione “asili nido” nell’ambito del contesto penitenziario, criticamente riproponendo l’ambiguità di fondo che rende pensabile la detenzione di bambini in tenera età.

    Al quadro normativo interno si affiancano le regole di rango internazionale che richiamano la necessità di valutare la maternità e le sue peculiari esigenze, anche in chiave organizzativa e infrastrutturale, prendendo atto di come il carcere non sia un luogo idoneo per la crescita di un minore.

    Il tema della tutela della maternità reclusa si mostra come certamente bisognoso di un complessivo ripensamento, sotto molti punti di vista, ma di sicuro ci sono già gli strumenti che, se sfruttati e considerati, avrebbero consentito il non verificarsi di quanto è accaduto.

    Ben vengano quindi le indagini e chi ha sbagliato paghi e a cominciare dalla testa, perché il pesce puzza sempre dalla testa.



L'articolo è pubblicato nel settimanale "La Riviera" di Domenica 19 Settembre.

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