|
Lea Garofalo emblema della lotta contro il
femminicidio e contro le mafie |
La “donna picchiata” è la punta di un iceberg. Se associamo la
violenza all’
aggressione fisica trascuriamo l’essenza del problema. La violenza dell’uomo contro la donna inizia con delle
molestie psicologiche. Un climax di micro-violenze. Prima sono piccole, quasi invisibili, a stento lei se ne accorge: uno sgarbo, una parolaccia tra mille “ti amo”, un’offesa per niente.
Poi diventano frequenti. Lei le sente, a volte risponde, a volte no. Intanto si abitua. Lui continua. Finché la vessazione è quotidiana. “Non sei più capace di cucinare”. Squalificata. “Ti sei vista allo specchio? Hai la cellulite, fai schifo”. Derisa. “Io non ti ho detto niente, ti inventi tutto.
Sei pazza“. Incolpata. “Se entro le sette non sei a casa, mi arrabbio”. Controllata. Poi i divieti: niente gonna, niente tacchi, no rossetto, zero amiche. Dalle umiliazioni l’uomo passa agli spintoni e alle botte. Alla fine lui e lei sono incappati in una spirale di violenza. L’uno dipendente dall’altra. Lui perché ha bisogno di esprimere il potere che non sente di avere dentro di sé, all’esterno; lei perché sottomessa e spogliata delle sue qualità, ha bisogno della scossa dell’uomo per sentirsi viva.
|
Mary Cirillo, 31 anni e mamma di 4 bambini, uccisa a
Monasterace il 30 Agosto scorso dal marito
Giuseppe Pilato con due colpi di pistola. |
È sbagliato dire che è la donna che se l’è cercata. Negli amori malati c’è un graduale adattamento alla violenza, frutto del plagio e della manipolazione lenta e logorante esercitati dal partner sulla compagna.
Ecco perché lei non se ne va subito, a volte non se ne va mai (e si lascia uccidere), e il numero di
denunce resta basso. In Italia, secondo un’indagine
Istat del 2006, la prima sulla violenza sulle donne, su sei milioni e 743 mila donne che hanno subito almeno un episodio di maltrattamento (cioè il
31,9 per cento della popolazione femminile), solo il 7 per cento ha avuto il coraggio di denunciare l’aggressore, che nel 48 per cento dei casi è il marito, nel 12 per cento il convivente e nel 23 per cento l’ex. Perché è stata minacciata di morte o ha paura che lui faccia del male ai figli. Quando, insomma, la sua incolumità è in pericolo. E la sua personalità è già compromessa.
Ai
centri antiviolenza arrivano donne che balbettano, che tremano, che fanno fatica a parlare, trascurate, svuotate, che non sanno più fare il loro lavoro, hanno perso un vocabolario, non sanno più di sapere quello che hanno studiato. Consumate. Alienate. Depresse. In pochi, spesso nessuno, le hanno credute. La madre, la
polizia. Perché lui con gli altri è un fiore, con lei una bestia. Voltare pagina e nascere per la seconda volta, anzi la prima, è un’impresa che richiede tempo e tantissima pazienza. Come recuperare un tossico di eroina. Un percorso di cadute e risalite. Di crisi di astinenza dal male e voglia di liberarsene. Perché? Perché riconoscere la violenza subita è una presa di consapevolezza difficilissima. È l’ostacolo più grande da superare per emanciparsi. La donna all’inizio dice “sì, è vero mi ha fatto del male” ma lo perdona, lo giustifica, scambia il possesso per amore, l’autoritarismo per protezione. Ha i sentimenti verso di sé anestetizzati. Incapace di sentirsi. Di percepire il male contro di sé. C’è un involucro tra lei e il mondo, una forma di protezione innescata dal cervello per sopravvivere e non scomparire del tutto. Imparare a volersi bene è il secondo obiettivo.