di Vito Pirruccio
Febbraio 1979. La Sala della federazione del PCI di Via Alamanni di Firenze era in trepida attesa per una riunione dei delegati delle cellule universitarie per incontrare il Segretario Generale venuto da Roma per saggiare la resistenza e la reazione della militanza comunista all’indomani della barbara uccisione dell’operaio dell’Italsider di Genova Guido Rossa caduto per mano delle brigate rosse. Enrico Berlinguer e il fidato braccio destro Antonio Tatò, il segretario particolare del leader comunista, partigiano e fondatore insieme a Franco Rodano, Fedele D' Amico, Giulio Sella, del Movimento dei cattolici comunisti, entrano in una nuvola di fumo e la platea ammutolisce. Alla presidenza, accanto a Berlinguer e Tatò, il segretario Michele Ventura.
Berlinguer accende una Turmac dietro l’altra e su un block notes annota gli interventi dei referenti universitari. È una riunione operativa per verificare lo stato di reazione del mondo universitario all’attacco terroristico contro il quale Berlinguer ha schierato il partito fin dal sorgere delle trame eversive. Quel partito, erede della Resistenza e baluardo delle conquiste democratiche, non poteva e non doveva stare in mezzo al guado e il compito di ogni militante era quello di essere in prima fila a salvaguardia della democrazia.
Intanto, a sinistra del PCI, si erano affermati movimenti che all’insegna “Né con lo Stato né non le br” facevano le pulci al partito di Berlinguer e al suo leader misurando l’operato del partito della classe operaia italiana in termini di purezza ideologica e formulando accuse a Berlinguer di essere al soldo del capitalismo. Il timbro ai militanti del PCI di essere socialdemocratici era quello meno infamante e si sprecavano le analisi dei puristi marxisti da salotto, molti dei quali oggi sono stati folgorati sulla Via di Damasco dal pacifismo, mentre, allora, brandivano la P38 e, come nel caso dell’assassinio di Guido Rossa, la puntavano al cuore, fisico e morale, della classe operaia. Mentre i parolai pontificavano sulla purezza ideologica, i compagni di Enrico Berlinguer, allora come nel passato, erano in trincea nelle fabbriche e in tutti i luoghi del Paese a difendere le conquiste sociali e democratiche maturate all’indomani della caduta del fascismo e all’affermarsi della Repubblica democratica fondata sulla Costituzione.
Berlinguer in quel febbraio del 1979, a pochi giorni dal fuoco assassino sparato su Guido Rossa, era venuto per chiedere al suo partito, al suo popolo di essere sulla breccia e alla testa della democrazia messa seriamente in pericolo il 9 maggio 1978 con l’uccisione dell’on. Aldo Moro e il 24 gennaio 1979 con l’assassinio dell’operaio dell’ITALSIDER di Genova.
Quell’uomo austero e riservato, a differenza dei parolai che imperversavano nelle redazioni di fogli inneggianti a proletari che conoscevano probabilmente più per aver letto di loro su qualche messale del marxismo che per aver lavorato a loro fianco, aveva non solo il polso reale del pericolo che si era abbattuto sul nostro Paese, ma era parte essenziale di quel popolo di lavoratori che a milioni in lui si riconoscevano.
Il 13 giugno 1984 il suo popolo in carne ed ossa avrebbe invaso le strade di Roma e Piazza San Giovanni per porgere l’estremo saluto all’uomo, al leader politico e al compagno colpito mortalmente da un ictus due giorni prima sul palco di Piazza Mercato a Padova mentre chiudeva la campagna elettorale per le elezioni del Parlamento europeo.
“Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”, così si espresse il partigiano Presidente della Repubblica Sandro Pertini quando si è offerto di trasferire il feretro con l’aereo presidenziale a Roma. Qualcuno, anche allora, non si fermò con la critica leggermente sottovoce anche se era sdraiato in qualche villa a Capalbio più che frequentatore delle fabbriche e vicino al sudore operaio.
13 giugno 1984. Ero, anche io, a sfilare davanti al feretro di Enrico Berlinguer nell’androne di Botteghe Oscure e nell’assolata Piazza San Giovanni. Per un minuto di silenzio davanti alla bara del leader comunista ho fatto 4 ore di fila e un serpentone a tripla e quarta fila dall’Altare della Patria fino allo storico bottegone. La delegazione di Roccella Jonica era lì dal giorno prima e il compianto amico fraterno Carmelo Daunisi mi raggiunse raggiante per essere stato scelto a fare il picchetto d’onore al feretro esposto nell’atrio di Botteghe Oscure ornato dall’opera di Giò Pomodoro “Parete di misure”, dalla teca con la Bandiera della “Comune di Parigi”, dalla falce e martello stilizzata e dal calco di Antonio Gramsci. Un compagno altoatesino si ferma di scatto ed esprime profeticamente la volontà, alla guardia posta a presidio del palazzo, di toccare questi simboli sicuro non avrebbe avuto più la possibilità di vederli da vicino.
All’arrivo davanti al portone la fila si blocca per il passaggio della delegazione dell’OLP guidata da Yasser Arafat e accolta da Nilde Jotti, Alessandro Natta e Giancarlo Pajetta. Arriva, anche, l’on. Giorgio Almirante e un silenzio rispettoso verso l’avversario politico, venuto a dare l’estremo saluto all’amico e collega parlamentare Enrico Berlinguer, accoglie il passaggio dello storico leader del Movimento Sociale Italiano.
Sarà la più grande manifestazione della storia repubblicana e, per una giornata, si silenziarono i critici in pantofole che predicavano rivoluzioni e discutevano sui massimi sistemi nelle ville di Capalbio.
L’Italia intera pianse e, ancora oggi, al pensiero non riesco a trattenere le lacrime.
Nessun commento:
Posta un commento