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lunedì 25 agosto 2014

OMELIA DEL VESCOVO AI FUNERALI DI MARY CIRILLO

Omelia del vescovo di Locri-Gerace ai funerali di Mary Cirillo, uccisa dal marito
(Monasterace, 24 agosto 2014)

Avrei desiderato far visita a questa comunità in un momento diverso. Ma non ho potuto fare a meno di esserlo in questa circostanza di sofferenza. Sofferenza non solo per una famiglia, ma per l’intera comunità di Monasterace e di quanti (persone, associazioni e movimenti) si sentono colpiti dal gesto compiuto da mano omicida. Siamo qui non solo per esprimere con le lacrime i nostri sentimenti, ma anche per cogliere il senso di un evento, che, nella sua gravità e tragicità, c’interroga. Interroga la comunità civile, ma interroga non meno la comunità religiosa. Parlo volutamente di comunità, intendendo rimarcare il fatto che come uomini e donne siamo chiamati a realizzare la dimensione sociale del nostro essere in “comunità di vita e di amore”, in una famiglia, ove l’io trova la sua completezza nel noi. Nessuno può ritenere di essere completo in se stesso e di non avere bisogno dell’altro. Parimenti nessuno può dire che quanto accade attorno a sè non lo interessa. No, quanto accaduto c’interessa personalmente. Non solo per quel senso di umanità che ci unisce, ma soprattutto perchè nessuno di noi è un’isola: siamo responsabili gli uni degli altri. Soprattutto in questo nostro tempo, in cui va diffondendosi una pericolosa tendenza verso la chiusura in un gretto individualismo. 
Questa nostra riflessione si colloca in un giorno di festa, la domenica, che è sacro alla comunità dei credenti in Cristo. E’ il giorno in cui noi cristiani viviamo nella fede il mistero della Pasqua del Signore. Un mistero di vita e non di morte. Avrei desiderato celebrare con voi la gioia della vita e della resurrezione, spezzando il Pane eucaristico ed ascoltando la Parola, non certo davanti al corpo esanime di una donna, che lascia orfani delle creature innocenti e la sua famiglia in un dolore incolmabile.
Di fronte a questa morte violenta, il Vangelo ci pone una domanda diretta, quella che Gesù rivolse ai suoi discepoli a Cesarea di Filippo: Voi, chi dite che io sia? E’ una domanda attuale che ritengo molto pertinente oggi, in questo nostro tempo, in cui ci troviamo troppo spesso di fronte a violenze, che non risparmiano donne e  bambini. Una domanda che ci interpella come cristiani, come credenti, ma anche come semplici uomini e donne di buona volontà. La domanda di Gesù non intende promuovere un sondaggio di opinione. Questo non interessa o interessa meno. Sappiamo come le opinioni possono essere divergenti. Quello che la domanda vuole suscitare è una presa di posizione personale di fronte a Gesù. Chi è Gesù per me? Per me che mi dico ancora cristiano. Per me che mi dico praticante e chiedo i sacramenti: il battesimo la comunione e la cresima per i figli, il sacramento del matrimonio, le esequie religiose. Per me che chiedo la comunione. O anche per me che ho una fede vacillante o che ho del tutto abbandonato la fede. 
Se, come scriveva Goehte, Cristo rappresenta un problema per l'uomo che riflette, non possiamo sottrarci all’interrogativo “Chi egli è?”. Un grande profeta? Un illuso? Un idealista? Uno dei tanti uomini che periodicamente accendono la speranza nel cuore di un'umanità fragile e disincantata? Come vorrei che noi cristiani dedicassimo più tempo in questa ricerca, per conoscerlo più in profondità. La fede cristiana non nasce da “una decisione etica” o da “una grande idea”, ma dall’incontro con la Persona di Gesù Cristo. Conoscere Lui è entrare in relazione col mistero stesso di Dio. “Io credo”, “noi crediamo” in Gesù, in un Dio vicino, che si fa prossimo alle nostre fragilità e sofferenze. Un Dio, che aveva compassione della folla che lo seguiva, che pianse alla morte dell’amico Lazzaro ed incontrando la vedova di Naim straziata per la morte del suo piccolo, che se parlava con qualcuno sapeva guardare i suoi occhi con profonda attenzione piena di amore. Che era disponibile a soffermarsi con chiunque incontrasse lungo il cammino, ad entrare nei suoi problemi, a mangiare e bere con i peccatori senza curarsi che potesse essere considerato un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori. Lo vediamo consentire ad una prostituta di ungere i suoi piedi. Per me, per noi avere fede in Lui è non lasciarsi scandalizzare da questo stile di prossimità, anzi seguirlo senza paura di sporcarsi le mani. Di conseguenza, il non vedere, il non sentire, il tacere ha tanto poco di cristiano. E’ una complicità che fa male e non aiuta. Lasciarsi attrarre da Gesù , è perciò inserirsi a fondo nella società, condividere la propria vita con quanti incontriamo, ascoltarne le preoccupazioni, collaborare materialmente e spiritualmente nelle loro necessità. Sbagliamo quando ci comportiamo da cristiani “discreti”, che non si vogliono compromettere per un falso senso di riservatezza. Altrettanto sbagliano quanti si chiudono nel proprio perbenismo, quanti hanno gli occhi chiusi, per non vedere. Non intervenire per mettere pace, non saper tendere la mano o scambiare un sorriso è arrendevolezza, se non “un lavarsi le mani” che non aiuta e talvolta sa di complicità. Benedetto XVI ebbe a scrivere che “chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio”. Ribatte papa Francesco: “Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio”. Da questo deriva che lo stile del cristiano non è il devozionalismo edulcorato e povero di slanci umani, l’avere “occhi aperti”, che vedono le povertà e le fragilità, che non giudicano, amano ed abbracciano le sofferenze altrui. Conosce Gesù ed ha fede in lui chi “sa uscire da se stesso”. Dobbiamo “imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste di aiuto”. Se vogliamo offrire un apporto positivo alla società in cui viviamo, se non vogliamo continuare a vivere esperienze terribili di morti ingiustificabili, liberiamoci dalla mentalità individualista, indifferente ed egoista che rende il nostro mondo sempre meno umano.
Signore, ti preghiamo, ascolta questa nostra preghiera. Se la nostra fede di fronte a certi fatti vacilla, lascia che ci chiediamo: Dove stiamo andando? Che ne è dei nostri sentimenti? E degli affetti più cari? Come poter guarire il nostro cuore malato? Come salvaguardare l’amore dell’uomo e della donna senza che si trasformi improvvisamente in lacrime e pianto?
Ti chiediamo qual è la via che ci porta alla vita? Non abbiamo dubbi: è il comandamento dell’amore, quello che abbiamo sempre conosciuto, ma poco praticato. Aiutaci a superare la terribile frattura che c’è dentro di noi tra la via del bene che ammiriamo e quella del male nella quale cadiamo. Questa “divisione” in noi si chiama infedeltà, tradimento, ambizione, intrigo e tornaconto. 
E così il nostro mondo piomba nelle tenebre. 
Ora, Signore, tutti noi, questo intero pese, sembra essere sprofondato nell’oscurità. E’ l’oscurità del male che ci avvolge ed oscura il cammino della speranza. Il volto di una donna che sprigiona bellezza è macchiato di sangue. Un cuore di mamma ha smesso di battere. Muore la speranza. Muore la speranza quando il sangue  scorre davanti agli occhi degli innocenti. Muore la speranza, quando a piccole creature si ruba il sorriso della mamma. 
Perdonaci, Signore. Siamo responsabili di ogni violenza che distrugge i sogni di una mamma. Responsabili del sangue versato, responsabili delle divisioni e dell’odio che si consumano nelle mura domestiche. Quando  la passione uccide l’amore,  l’amore si trasforma in odio distruttivo, la malvagità distrugge l’affetto più caro.
Perdonaci, Signore. Rimuovi da noi l’indifferenza di fronte ad ogni forma di violenza nei confronti di donne madri, speranza di futuro, di vita e di fecondità. Rompi la solitudine fra le mura domestiche ed abbatti i muri eretti dal nostro egoismo e perbenismo.
Grazie, Mary, se la tua morte apre la nostra riflessione alla sacralità della vita. Grazie se fai sorgere in noi il disprezzo per la violenza sulle donne, che sono le nostre madri. E su ogni forma di violenza. I tuoi occhi implorano pietà. Implorano pietà per i quattro figli generati nell’amore. Per l’amore fragile, tradito e dimenticato. Una pietà che siamo chiamati ad accogliere e ad invocare: Pietà, Signore, pietà. 
Abbiamo qui ed ora bisogno di silenzio. La vita di una famiglia è stata ferita, sconvolta, invasa da domande e indiscrezioni: abbiamo bisogno di silenzio. Il nome di questo piccolo paese fatto di gente normale è risuonato dappertutto accompagnato da un senso di orrore e di inquietudine: abbiamo bisogno del silenzio. Le parole sono come travolte dal disagio di avere perduto il significato che sembrava ovvio, il significato che tiene in piedi il mondo. Dopo quello che è successo, che cosa significano parole come “marito”, “moglie”, “figlio”, “amore”? 
Abbiamo bisogno di silenzio.
Signore, apri il nostro cuore e la nostra mente a comprendere che amore e responsabilità vanno insieme. Che nulla può giustificare gesti di violenza, che distruggono una vita, tante vita ed altre fanno piombare nell’abbandono e nella solitudine. 
A te, Mary, dico: Dormi mamma, ma continua a vegliare sui tuoi figli. Ed al Signore: non togliere loro la gioia di vivere e la speranza. Amen. 
+ Francesco Oliva
Vescovo di Locri-Gerace

 
Omelia del vescovo di Locri-Gerace ai funerali di Mary Cirillo, uccisa dal marito
(Monasterace, 24 agosto 2014)


Avrei desiderato far visita a questa comunità in... un momento diverso. Ma non ho potuto fare a meno di esserlo in questa circostanza di sofferenza.

Sofferenza non solo per una famiglia, ma per l’intera comunità di Monasterace e di quanti (persone, associazioni e movimenti) si sentono colpiti dal gesto compiuto da mano omicida. Siamo qui non solo per esprimere con le lacrime i nostri sentimenti, ma anche per cogliere il senso di un evento, che, nella sua gravità e tragicità, c’interroga. Interroga la comunità civile, ma interroga non meno la comunità religiosa.

Parlo volutamente di comunità, intendendo rimarcare il fatto che come uomini e donne siamo chiamati a realizzare la dimensione sociale del nostro essere in “comunità di vita e di amore”, in una famiglia, ove l’io trova la sua completezza nel noi. Nessuno può ritenere di essere completo in se stesso e di non avere bisogno dell’altro.

Parimenti nessuno può dire che quanto accade attorno a sè non lo interessa. No, quanto accaduto c’interessa personalmente. Non solo per quel senso di umanità che ci unisce, ma soprattutto perchè nessuno di noi è un’isola: siamo responsabili gli uni degli altri. Soprattutto in questo nostro tempo, in cui va diffondendosi una pericolosa tendenza verso la chiusura in un gretto individualismo. 

 Questa nostra riflessione si colloca in un giorno di festa, la domenica, che è sacro alla comunità dei credenti in Cristo. E’ il giorno in cui noi cristiani viviamo nella fede il mistero della Pasqua del Signore. Un mistero di vita e non di morte. Avrei desiderato celebrare con voi la gioia della vita e della resurrezione, spezzando il Pane eucaristico ed ascoltando la Parola, non certo davanti al corpo esanime di una donna, che lascia orfani delle creature innocenti e la sua famiglia in un dolore incolmabile.
Di fronte a questa morte violenta, il Vangelo ci pone una domanda diretta, quella che Gesù rivolse ai suoi discepoli a Cesarea di Filippo: Voi, chi dite che io sia? E’ una domanda attuale che ritengo molto pertinente oggi, in questo nostro tempo, in cui ci troviamo troppo spesso di fronte a violenze, che non risparmiano donne e bambini. Una domanda che ci interpella come cristiani, come credenti, ma anche come semplici uomini e donne di buona volontà. La domanda di Gesù non intende promuovere un sondaggio di opinione. Questo non interessa o interessa meno. Sappiamo come le opinioni possono essere divergenti. Quello che la domanda vuole suscitare è una presa di posizione personale di fronte a Gesù. Chi è Gesù per me? Per me che mi dico ancora cristiano. Per me che mi dico praticante e chiedo i sacramenti: il battesimo la comunione e la cresima per i figli, il sacramento del matrimonio, le esequie religiose. Per me che chiedo la comunione. O anche per me che ho una fede vacillante o che ho del tutto abbandonato la fede.
Se, come scriveva Goehte, Cristo rappresenta un problema per l'uomo che riflette, non possiamo sottrarci all’interrogativo “Chi egli è?”. Un grande profeta? Un illuso? Un idealista? Uno dei tanti uomini che periodicamente accendono la speranza nel cuore di un'umanità fragile e disincantata? Come vorrei che noi cristiani dedicassimo più tempo in questa ricerca, per conoscerlo più in profondità. La fede cristiana non nasce da “una decisione etica” o da “una grande idea”, ma dall’incontro con la Persona di Gesù Cristo. Conoscere Lui è entrare in relazione col mistero stesso di Dio. “Io credo”, “noi crediamo” in Gesù, in un Dio vicino, che si fa prossimo alle nostre fragilità e sofferenze. Un Dio, che aveva compassione della folla che lo seguiva, che pianse alla morte dell’amico Lazzaro ed incontrando la vedova di Naim straziata per la morte del suo piccolo, che se parlava con qualcuno sapeva guardare i suoi occhi con profonda attenzione piena di amore. Che era disponibile a soffermarsi con chiunque incontrasse lungo il cammino, ad entrare nei suoi problemi, a mangiare e bere con i peccatori senza curarsi che potesse essere considerato un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori. Lo vediamo consentire ad una prostituta di ungere i suoi piedi. Per me, per noi avere fede in Lui è non lasciarsi scandalizzare da questo stile di prossimità, anzi seguirlo senza paura di sporcarsi le mani. Di conseguenza, il non vedere, il non sentire, il tacere ha tanto poco di cristiano. E’ una complicità che fa male e non aiuta. Lasciarsi attrarre da Gesù , è perciò inserirsi a fondo nella società, condividere la propria vita con quanti incontriamo, ascoltarne le preoccupazioni, collaborare materialmente e spiritualmente nelle loro necessità. Sbagliamo quando ci comportiamo da cristiani “discreti”, che non si vogliono compromettere per un falso senso di riservatezza. Altrettanto sbagliano quanti si chiudono nel proprio perbenismo, quanti hanno gli occhi chiusi, per non vedere. Non intervenire per mettere pace, non saper tendere la mano o scambiare un sorriso è arrendevolezza, se non “un lavarsi le mani” che non aiuta e talvolta sa di complicità. Benedetto XVI ebbe a scrivere che “chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio”. Ribatte papa Francesco: “Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio”. Da questo deriva che lo stile del cristiano non è il devozionalismo edulcorato e povero di slanci umani, l’avere “occhi aperti”, che vedono le povertà e le fragilità, che non giudicano, amano ed abbracciano le sofferenze altrui. Conosce Gesù ed ha fede in lui chi “sa uscire da se stesso”. Dobbiamo “imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste di aiuto”. Se vogliamo offrire un apporto positivo alla società in cui viviamo, se non vogliamo continuare a vivere esperienze terribili di morti ingiustificabili, liberiamoci dalla mentalità individualista, indifferente ed egoista che rende il nostro mondo sempre meno umano.
Signore, ti preghiamo, ascolta questa nostra preghiera. Se la nostra fede di fronte a certi fatti vacilla, lascia che ci chiediamo: Dove stiamo andando? Che ne è dei nostri sentimenti? E degli affetti più cari? Come poter guarire il nostro cuore malato? Come salvaguardare l’amore dell’uomo e della donna senza che si trasformi improvvisamente in lacrime e pianto?
Ti chiediamo qual è la via che ci porta alla vita? Non abbiamo dubbi: è il comandamento dell’amore, quello che abbiamo sempre conosciuto, ma poco praticato. Aiutaci a superare la terribile frattura che c’è dentro di noi tra la via del bene che ammiriamo e quella del male nella quale cadiamo. Questa “divisione” in noi si chiama infedeltà, tradimento, ambizione, intrigo e tornaconto.
E così il nostro mondo piomba nelle tenebre.
Ora, Signore, tutti noi, questo intero pese, sembra essere sprofondato nell’oscurità. E’ l’oscurità del male che ci avvolge ed oscura il cammino della speranza. Il volto di una donna che sprigiona bellezza è macchiato di sangue. Un cuore di mamma ha smesso di battere. Muore la speranza. Muore la speranza quando il sangue scorre davanti agli occhi degli innocenti. Muore la speranza, quando a piccole creature si ruba il sorriso della mamma.
Perdonaci, Signore. Siamo responsabili di ogni violenza che distrugge i sogni di una mamma. Responsabili del sangue versato, responsabili delle divisioni e dell’odio che si consumano nelle mura domestiche. Quando la passione uccide l’amore, l’amore si trasforma in odio distruttivo, la malvagità distrugge l’affetto più caro.
Perdonaci, Signore. Rimuovi da noi l’indifferenza di fronte ad ogni forma di violenza nei confronti di donne madri, speranza di futuro, di vita e di fecondità. Rompi la solitudine fra le mura domestiche ed abbatti i muri eretti dal nostro egoismo e perbenismo.
Grazie, Mary, se la tua morte apre la nostra riflessione alla sacralità della vita. Grazie se fai sorgere in noi il disprezzo per la violenza sulle donne, che sono le nostre madri. E su ogni forma di violenza. I tuoi occhi implorano pietà. Implorano pietà per i quattro figli generati nell’amore. Per l’amore fragile, tradito e dimenticato. Una pietà che siamo chiamati ad accogliere e ad invocare: Pietà, Signore, pietà.
Abbiamo qui ed ora bisogno di silenzio. La vita di una famiglia è stata ferita, sconvolta, invasa da domande e indiscrezioni: abbiamo bisogno di silenzio. Il nome di questo piccolo paese fatto di gente normale è risuonato dappertutto accompagnato da un senso di orrore e di inquietudine: abbiamo bisogno del silenzio. Le parole sono come travolte dal disagio di avere perduto il significato che sembrava ovvio, il significato che tiene in piedi il mondo. Dopo quello che è successo, che cosa significano parole come “marito”, “moglie”, “figlio”, “amore”?
Abbiamo bisogno di silenzio.
Signore, apri il nostro cuore e la nostra mente a comprendere che amore e responsabilità vanno insieme. Che nulla può giustificare gesti di violenza, che distruggono una vita, tante vita ed altre fanno piombare nell’abbandono e nella solitudine.
A te, Mary, dico: Dormi mamma, ma continua a vegliare sui tuoi figli. Ed al Signore: non togliere loro la gioia di vivere e la speranza. Amen.

+ Francesco Oliva
Vescovo di Locri-Gerace

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